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venerdì, giugno 24, 2011

VENERDÌ 24 GIUGNO ✮ KIZOMBA ROMANA - DOLCI EMOZIONI ✮ | ZOUK IN ROMA

Location:  Cafè Cretcheu
Via Ancona 13, 00198 Rome, Italia
Rome, Italy

✮ KIZOMBA ROMANA✮

- DOLCI EMOZIONI-


Kizomba | Zouk | Salsa | Afro/Black | Kuduro …

SPECIALE EVENTO dalle 22:00 alle 04:00
al Cafè Cretcheu, in via Ancona 13, 00198 Rome - Piazza Fiume/Porta Pia

Entrata è gratis con obbligo di consumo, E D'ALMENO UN CAPO DI ABBIGLIAMENTO BIANCO.

Vieni a vedere !

ATTENZIONE
[ I nostri amici sono sempre educati e cortesi sia fuori che dentro al locale! ]

[ Si consiglia di arrivare presto altrimenti che senso c'è arrivare alla fine della serata.]

[ Tutti sono invitati a creare un ambiente famigliare, amichevole, e molto "kizombeiro". Tutti sul palco a ballare!]

Ulteriore informazione:
a) Cliccare su “Invita persone a partecipare” dal menu a destra.
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+ siamo e + ci divertiamo!
Per info: 320.5320188 | 338.4994766 | 3490841557

mercoledì, giugno 22, 2011

Libia/Guerra senza fine: In silenzio triplicano le morti della missione “umanitaria”

Le ultime drammatiche notizie provenienti dalla Libia su nuove vittime civili causate dai bombardamenti della NATO, (probabilmente non le uniche, vista l’intensità dei raid aerei dell’Alleanza e le denunce fatte in precedenza da alte personalità religiose locali) riportano all’attenzione della pubblica opinione  la natura stretta dell’operazione militare internazionale ora denominata “Unified Protector” e lanciata a suo tempo  con il supposto obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del regime di Gheddafi.

Questa è  una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime, e per ridisegnare gli assetti di forza in una regione, quella del Maghreb, oggi attraversata da un vento di cambiamento che rischia di scuotere alle fondamenta gli obiettivi politico-strategici di gran parte dei governi che oggi partecipano alle operazioni della NATO.  Ancora una volta – come in Afghanistan – ci viene poi detto che  è in gioco  la credibilità ed il futuro della NATO, alleanza alla ricerca costante di una nuova ragione di esistere. In questo contesto, le vittime prime continuano ad essere il diritto internazionale e quelle popolazioni civili supposte beneficiarie dell’intervento, e che oggi si trovano intrappolate in un fuoco incrociato, trabombe umanitarie, operazioni militari sul terreno, e crimini di guerra commessi da tutte le parti in conflitto.

Questi elementi, assieme alla querelle tutta interna alla maggioranza sulla continuazione della missione in Libia , e l’annuncio dato nelle scorse ore da Berlusconi circa la decisione di porre termine alla partecipazione italiana alle operazioni a settembre, ci devono impegnare ad una più forte iniziativa di pace. Soprattutto in una fase nella quale opinione pubblica ed i media sembrano aver rimosso la guerra. Obiettivo principale dovrà essere quello di  rilanciare una soluzione pacifica e diplomatica al conflitto, in sostegno ad una transizione pacifica verso la democrazia in Libia,  anche sulla scia di quanto approvato  nel documento dell’ultima Assemblea nazionale di SEL.

Le operazioni militari sul campo ormai sono in un’impasse, un braccio di ferro nel quale la NATO spera di fiaccare definitivamente le truppe “lealiste” per poi costringerle a forza di defezioni , alla resa negoziata. Nelle condizioni attuali non sarà possible neanche lontanamente immaginare una tale soluzione.  Anzi quanto più  le ostilità si protrarranno, tanto più impraticabile diverrà quest’ ipotesi. Sarà perciò urgente  attivarsi ad ogni livello per un  cessate il fuoco immediato e la sospensione delle operazioni militari,  proponendo un processo di mediazione internazionale gestito e coordinato da governi e organizzazioni “terze” che non hanno avuto alcun ruolo nel conflitto in corso, e l’invio di una forza di interposizione ONU a tutela dei civili e del cessate il fuoco, composta da paesi che non hanno partecipato alle operazioni militari.

Di recente l’International Crisis Group, che già a suo tempo aveva stigmatizzato la decisione della comunità internazionale di imporre una “no fly zone” evidenziandone i rischi e le contraddizioni, ha rilanciato una proposta di mediazione e soluzione politica, che possa creare le giuste premesse per un futuro di pace e libertà in Libia. Tra le proposte quella di sostenere un processo di transizione democratica  negoziata tra i ribelli ed il regime, grazie all’intermediazione  di soggetti non coinvolti nel conflitto.

Certamente, e come riaffermato dalla think-tank,  le dichiarazioni fatte nell’ultimo vertice del G8 di Deauville  (“Gheddafi se ne deve andare”) sembrano chiudere ogni ipotesi di trattativa che possa prevedere un possibile esilio di Gheddafi. Qualche tempo prima il Procuratore Generale della Corte Penale Internazionale Moreno Ocampo aveva spiccato mandato di cattura internazionale per Gheddafi , che a questo punto non ha altra alternativa che quella di vendere cara la pelle.  A meno che l’abbandono della scena da parte di Gheddafi venga considerato non come condizione necessaria per l’avvio del processo di transizione democratica, ma la sua conseguenza.

Proprio su questo punto si è arenata la recente missione di mediazione russa a Tripoli, mentre la Cina ha deciso pragmaticamente di cambiare rotta aprendo un canale diretto con il governo provvisorio di Bengasi. Più in generale, ed anche in vista della necessaria elaborazione programmatica di SEL e dell’interlocuzione con le forze del centrosinistra e della sinistra diffusa e sociale, sarà necessariocomprendere a fondo le sfide politiche e intellettuali che questo intervento militare in Libia propone. La risoluzione 1973 marca un passaggio epocale nella storia delle Nazioni Unite, pieno di rischi ed incognite.

E’  la prima volta – infatti – che viene messo in pratica il principio della Responsibility to Protect (R2P). Questo principio, sviluppato in seguito alle stragi di civili di Srebrenica e Ruanda, delinea un approccio che mette al centro i diritti e la dignità delle persone rispetto a quelli della sovranità degli stati  Su questo punto andrà fatta chiarezza. Non possiamo rimanere impassibili di fronte a violazioni ripetute dei diritti umani, né di fronte a crimini contro l’umanità. In linea di principio può essere  condiviso il passaggio dal principio della “non ingerenza” quello della “non-indifferenza” ed anche la possibilità che la comunità internazionale si assuma la responsabilità di   attivarsi  qualora il governo di uno stato venga meno alle sue responsabilità nei confronti dei propri cittadini, violandone sistematicamente i diritti umani.

Con altrettanta fermezza  però va affermato che il principio della R2P può essere accettato solo se nonutilizzato in maniera selettiva, assicurandone la gestione e l’attuazione da parte di soggetti ed entità “terze” e laddove  la sua applicazione non sia fondata sugli strumenti propri di un approccio “militare” alla sicurezza. Il problema vero è quando sulla scorta di un principio, condivisibile sulla carta,  si passa poi a pratiche o modalità di applicazione che  creano pericolosi precedenti per giustificare la guerra. La genesi e lo svolgimento della guerra in Libia ne sono la riprova, visto che fin dall’inizio si decise di  dare massima enfasi allo strumento militare (no fly zone, no drive zone etc) piuttosto che agli strumenti politici, ed economici, e di mediazione internazionale.

Inoltre, il fatto che tale decisione fosse lasciata al Consiglio di Sicurezza, (che è noto essere organismo nel quale 5 superpotenze fanno la differenza attraverso il diritto di veto), rende ancor più evidente il rischio di un approccio opportunistico alla R2P fondato essenzialmente sugli interessi strategici o di “realpolitik” dei principali attori politici globali.  Per dare un senso compiuto al principio della “non indifferenza”  o meglio della “responsabilità” , e sgombrare il campo da ogni applicazione opportunistica dettata solo da interessi geopolitici,  andrà pertanto  riaperta una discussione sul tema della riforma delle Nazioni Unite che con questa vicenda rischiano di uscirne ulteriormente indebolite se non trasformate nella loro ragion di esistere.

L’Assemblea Generale dovrà avere un ruolo centrale nel democratizzare i processi decisionali sul ricorso alla R2P che dovranno essere tolti alla competenza del Consiglio di Sicurezza. Andranno poi creati strumenti d’interposizione ed intervento a difesa dei civili sotto comando delle Nazioni Unite e non subappaltati alla NATO. Inoltre sarà necessario sviluppare politiche di prevenzione dei conflitti che possano permettere alla comunità internazionale di attivarsi in anticipo con misure politiche ed economiche per prevenire possibili escalation che mettano a rischio la vita di civili. Quegli stessi che oggi muoiono sotto le bombe della NATO o quelle delle truppe “lealiste”, a Tripoli come a Misurata.

Francesco Martone

sinistraelibertà

venerdì, giugno 17, 2011

Diritti Globali 2011: L’insostenibile pesantezza del modello dominante (Rassegna)

La copertina del Rapporto 2011Per dirla con il sociologo Edgar Morin: «Salvarsi dalla catastrofe è improbabile, perciò ci spero» (“La Stampa”, 27 marzo 2011). È un po’ questo il senso dei colori della copertina del Rapporto sui diritti globali di quest’anno: un blu intenso e predominante ci dice delle difficoltà di un mondo alle prese con la crisi globale, con la disumanità delle guerre, dei terrorismi e delle violazioni dei diritti, con la devastazione ambientale che sembra conoscere ripensamenti troppo lenti e timidi; ma c’è anche un punto di verde che si affaccia e reclama un’incerta speranza, che allude a un orizzonte di futuro possibile, più degno e giusto per tutti. C’è il colore cupo del cimitero liquido che inghiotte a migliaia nel Mediterraneo e nel Canale di Sicilia uomini, donne e bambini in fuga e c’è il pallido verde del sogno di una vita desiderabile negli interstizi della Fortezza Europa. C’è lo scuro della privazione della libertà e del domani, della fame, della sete, della rapina delle risorse, del sottosviluppo e c’è il tenue ma tenace verde della liberazione e della rivolta che s’impongono al mondo e rovesciano i tiranni.

  • L’osceno mestiere delle armi

Il Maghreb ci ha insegnato, giacché lo avevamo dimenticato, che ribellarsi è giusto e talvolta diviene possibile. Assieme, ci ha mostrato come, ancora e sempre, le grandi nazioni, l’Europa e le organizzazioni mondiali siano incapaci d’interposizione positiva e scelgano sempre la scorciatoia (spesso interessata) dell’intervento militare. La guerra è una moneta che non va mai fuori corso. Anche in quest’anno l’abbiamo vista all’opera con le consuete -e micidiali- caratteristiche in Iraq, in Afghanistan e, ora, in Libia; oltre che nei tanti focolai e incendi minori sparsi per il mondo e, in particolare, nel continente africano.

Il Novecento, secolo breve e insanguinato, ha traghettato nel nuovo millennio inalterate volontà di potenza e strumenti bellici più raffinati ma non meno mortiferi. Strumenti più raffinati non tanto in virtù dei giganteschi progressi (meglio in questo caso sarebbe definirli regressi) tecnologici: non più guerre di uomini contro uomini, di soldati contro soldati, ma cinici e oltremodo distruttivi war games truccati dall’inizio, proprio come per la «pistola fumante» di Saddam Hussein; quanto per la cortina fumogena e propagandistica con la quale se ne sono oscurati totalmente gli effetti, con la macelleria scomparsa dai video e occultata dall’informazione embedded, nobilitata dalla vergognosa retorica di certi editorialisti e dal doloso rovesciamento di senso delle parole, che definisce umanitari la distruzione e l’eccidio. Alla violenza delle armi si intreccia così, sapientemente, quella della torsione della verità. Violenta e vile anch’essa.

Che la guerra sia cinica e che le parole tentino di mascherarne la vera essenza e la cruda sostanza, del resto, non è storia di oggi. Alle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 agosto 1945 erano stati dati i vezzosi nomignoli di Little Boy e Fat Man. I morti furono oltre mezzo milione, tra quanti morirono subito e quanti in seguito, per effetto delle radiazioni. Praticamente tutti civili. Una strage forse più infame delle tante altre, poiché non motivata da strette esigenze belliche quanto dalla volontà di testare le nuove armi e di ammonire l’alleato-nemico sovietico. Un esperimento in corpore vili, come si dice, ma in questo caso la viltà stava in chi premette quei pulsanti e ancor di più in chi decise che venissero premuti. Per quell’immane crimine non ci fu nessuna Norimberga. I vincitori, oltre che la propria forza e il nuovo ordine, impongono difatti anche la nuova morale e il proprio diritto.

Allo stesso modo, ieri e oggi nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, si testano nuovi armamenti e si smaltiscono i vecchi arsenali obsoleti, così da poterli nuovamente ricostituire ammodernati; costa difatti meno smaltirli impiegandoli sul campo: la vita umana, fatta diventare merce, è quella che vale meno di tutte. La guerra odierna delle grandi potenze è, eminentemente, “esternalizzata”: aggressione di privati armati (mercenari nobilitati con il nome di contractor) contro civili disarmati (mistificati con il marchio di terroristi, il più delle volte a torto). Guerra dell’Occidente contro i Sud del mondo. Guerra delle multinazionali per l’apertura di nuovi mercati. Guerra di governi e coalizioni mossi dalla necessità di garantirsi accesso a risorse energetiche e materie prime strategiche. Addirittura, guerra scatenata semplicemente dalla necessità di rinverdire la propria immagine per fini elettorali e di consenso, come nell’accelerazione imposta da Nicolas Sarkozy all’intervento e ai bombardamenti dei “volenterosi” (sic!) in Libia.

In quei giorni, mentre persino “grandi vecchi” della sinistra italiana appoggiavano l’intervento bellico contro Muammar Gheddafi, la parola più appropriata l’ha pronunciata, e tra i pochi, un ministro leghista: neocolonialismo. Nel caso di Roberto Calderoli si è trattata di una forma, assai poco credibile, di razzismo-pacifismo. Ma non di meno il termine utilizzato appare pertinente. La guerra ha assunto (o, più probabilmente, ha sempre costitutivamente avuto) la fisionomia propria della finalizzazione colonialista, vale a dire del depredamento di risorse e ricchezze, ora con particolare centralità di quelle energetiche, di posizionamento e di protezione di interessi geostrategici. Quando possibile, ciò avviene attraverso un combinato disposto di macrospeculazioni finanziarie e di azione convergente di Banche centrali, governi e istituzioni sovranazionali. Illuminante di questa tecnica (solo in apparenza priva di effetti letali) il caso della Grecia, dove dietro alla facciata degli “aiuti”, è passata la subordinazione del presente e del futuro di quel Paese a decisioni esterne e sinanche il pregiudizio di sue porzioni di territorio, poste a pegno della (impossibile) restituzione del debito, laddove peraltro il credito è cedibile a terzi. Quando, per ragioni diverse, il “colonialismo dolce” non può avanzare in punta di deliberati finanziari e di subordinazione di esecutivi e leadership locali agli interessi delle corporation, si torna ai più antichi e collaudati sistemi, alla punta delle baionette, vale a dire all’occupazione fisica, come in Iraq e Afghanistan o ai protettorati e ai “governi-fantoccio” a presidio e garanzia degli interessi occidentali. Esemplare al riguardo il ruolo e la diretta ingerenza avuti dalla Francia, ad aprile 2011, nella crisi interna della Costa d’Avorio, ex colonia dove gli interessi francesi sono tuttora assai cospicui, sino alla cattura e deposizione del “presidente illegittimo” e divenuto sgradito Laurent Gbagbo.

Anche qui, poco di nuovo: le politiche del bastone e della carota, dei governi amici, dei golpe e dell’intervento militare sono gli strumenti utilizzati nel corso del Novecento nel risiko planetario dalle due superpotenze di allora, dagli USA nel “cortile di casa” latino e centro americano e dall’URSS nell’Est Europa e da entrambe in Africa, Medio Oriente e Asia.

Ora i rovesciamenti, traumatici o “dolci”, dell’ordine esistente non si chiamano più golpe o guerre coloniali ma con gli ossimori “guerre umanitarie” o “missioni militari di pace”: le intenzioni e i risultati non sono dissimili. La differenza è che a quel tempo gli interessi perseguiti erano quelli, appunto, di potenza degli Stati che si erano divisi il mondo; oggi sono eminentemente quelli delle grandi multinazionali. D’altra parte, è forse necessario anche qui provare a riportare le parole al loro reale significato. Appare, in effetti, arduo considerare e definire come guerra la pratica dei bombardamenti aerei, che è divenuta la costante. A rischio zero per chi la compie e oltremodo devastante per chi ne è vittima. Persino il terrorismo comporta rischi e conseguenze per i suoi autori. In questo caso, invece, la sproporzione è evidente. Non c’è qui bellum né duellum, non c’è neppure l’osceno mestiere delle armi: c’è solo la supremazia dei missili e dei sistemi elettronici, degli investimenti multimiliardari dei governi e degli immani profitti delle lobby transnazionali. La definizione appropriata di tutto ciò sarebbe quella di stragismo su vasta scala.

  • La catena di montaggio della morte

Secondo i dati dell’osservatorio mensile sulle vittime dei conflitti, pubblicati nel nuovo periodico di Emergency, “E – il mensile”, solo dal 10 febbraio al 10 marzo 2011 vi sono state 2.544 vittime disseminate in 20 Paesi. In testa alla triste lista l’Afghanistan, con 550 morti e il Pakistan con 404. La Libia ancora non era conteggiata. Si tratta di cifre sicuramente inferiori alla realtà, poiché provenienti solo dalle rilevazioni sul campo di organizzazioni umanitarie e da fonti di stampa, ma sufficienti a fare comprendere gli effetti delle ingerenze umanitarie e degli squilibri mondiali. Vale anche qui il cinico rovesciamento della realtà e del nome delle cose. “Missioni di pace”, invocate in nome della difesa delle popolazioni civili dalle violenze di satrapi e dittatori, si sono regolarmente (e inevitabilmente: di questo occorrerebbe che si rendessero conto i sostenitori in buona fede dell’intervento in Libia o, prima, in Bosnia) tradotte in una crescita esponenziale proprio di quel genere di vittime. Relativamente all’Afghanistan, nel solo 2010, le organizzazioni umanitarie hanno registrato 2.777 vittime civili, in aumento del 15% rispetto all’anno precedente (ma per i bambini la crescita delle morti è stata addirittura del 66%). Di almeno 440 di queste vittime sono responsabili le forze di sicurezza afghane e le truppe internazionali “di pace”.

Ancora più grave il quadro dell’Iraq, dove il bilancio di Iraq Body Count dall’inizio del conflitto nel 2003 all’aprile 2011 indica in oltre 100.000 le morti civili. Sicuramente neppure Saddam Hussein, con lo sterminio dei kurdi e degli oppositori, sarebbe riuscito a tanto. Pure l’Italia ha fatto la sua parte, spendendo peraltro in questa guerra sinora oltre tre miliardi di euro. Certo assai meno degli USA, il cui budget 2011 per la Difesa (che sarebbe invece proprio chiamare spesso per l’Offesa) è di 725 miliardi di dollari, di cui circa 200 per le missioni in Afghanistan e Iraq.

La guerra, insomma, oltre a non essere mai giusta e mai necessaria, non difende i civili, ma contribuisce a ucciderli e a esporli ancora di più alla spirale della violenza. Sono altri gli strumenti. Ma il gioco, ormai collaudato, è quello di lasciare degenerare a tal punto la situazione che non si rendano più praticabili soluzioni politiche e diplomatiche, di interposizione e pressione, di mediazione e trattativa. Allora si dice: non c’è altra soluzione dell’intervento militare. Invece, le soluzioni alternative c’erano e ci sono sempre. Basta porsi in quell’ottica e zittire le pressioni interessate delle lobby. E magari destinare alle alternative anche solo una piccola parte della montagna di risorse economiche impiegate per le opzioni belliche.

Del resto, al di là di ogni valutazione nel merito e dei possibili -e anzi necessari- distinguo, è paradossale che il premio Nobel per la pace sia stato assegnato al presidente di uno Stato mentre questi era in guerra su più fronti. E’ anche questa distanza tra le cose e il nome a esse attribuito dall’opinione e dalla morale dominante che determina l’esteso e crescente -preoccupante sotto il profilo democratico- sentimento di repulsa per la politica.

Di Sergio Segio, coordinatore del “Rapporto sui diritti globali 2011″ | Volontariato Oggi
(scarica l’introduzione completa)

La base segreta degli Stati Uniti per le guerre in Africa e Medio oriente

Piano della Cia. Secondo le rivelazioni di un funzionario dell’agenzia di spionaggio statunitense citato dal New York Times, gli Usa stanno costruendo una base aerea per lanciare attacchi nello Yemen con droni armati.

MANLIO DINUCCI*

Roma, 17 giugno 2011, Nena News Mentre i raid aerei sulla Libia sono saliti a 11.500 e il segretario generale della Nato Rasmussen chiede agli alleati più spese militari e maggiore impegno nella guerra, il conflitto si propaga nella regione mediorientale e nordafricana in forme meno visibili ma non per questo meno pericolose, aprendo in continuazione nuovi fronti. La Cia – informa un funzionario dell’agenzia di spionaggio statunitense citato dal New York Times – sta costruendo una base aerea segreta in Medio Oriente per lanciare attacchi nello Yemen con droni armati. Sono i Predator/Reaper (già in azione in Afghanistan, Pakistan e Libia), armati di 14 missili Hellfire e telecomandati da una base in Nevada a oltre 10mila chilometri di distanza.

Da quando è entrato in carica, «il presidente Obama ha drasticamente aumentato la campagna di bombardamento della Cia in Pakistan, impiegando droni armati», gli stessi che verranno usati per «espandere la guerra nello Yemen». L’amministrazione democratica li considera «l’arma preferita per cacciare e uccidere militanti in paesi dove non è praticabileuna grossa presenza militare americana». Nello Yemen, è attualmente in azione il Comando congiunto per le operazioni speciali (Ussocom), assistito dalla Cia e autorizzato dall’esecutivo di Sanaa. Ma, data la «fragilità di questo governo autoritario », l’amministrazione Obama è preoccupata che un futuro governo non sia in grado, o disposto, a sostenere le operazioni statunitensi. Per questo ha incaricato la Cia di costruire la base segreta in una non-identificata località mediorientale, così da intraprendere «azioni coperte senza l’appoggio del governo ospite». Ciò conferma che l’amministrazione Obama sta intensificando la guerra segreta in tutte le sue varianti. Come dichiara ufficialmente lo Ussocom, essa comprende: azione diretta per distruggere obiettivi, eliminare o catturare nemici; guerra non-convenzionale condotta da forze esterne, addestrate e organizzate dallo Ussocom; controinsurrezione per aiutare governi alleati a reprimere

una ribellione; operazione psicologica per influenzare l’opinione pubblica straniera così che appoggi le azioni militari Usa. Queste operazioni vengono condotte basandosi su tecnologie sempre più avanzate. Rientra in tale quadro la decisione dell’amministrazione Obama, resa nota dal New York Times, di creare su scala globale «reti ombra di Internet e telefonia mobile che possano essere usate dai dissidenti per aggirare la censura governativa». Il Pentagono e il Dipartimento di stato vi hanno investito finora almeno 50 milioni di dollari. Esse vengono realizzate per mezzo di speciali valigette che, introdotte in un determinato paese, permettono di comunicare con l’estero attraverso computer e telefoni cellulari, in modalità wireless e in codice, evitando controlli e divieti governativi.

La motivazione ufficiale di Washington è «difendere la libertà di parola e allevare la democrazia». Ben altri gli scopi. Le reti ombra, fornite solo ai gruppi dissidenti utili alla strategia statunitense (in Siria, Iran e altri paesi) e controllate da Washington, sono le più adatte a diffondere sui media notizie fabbricate, per operazioni psicologiche che preparano l’opinione pubblica a nuove guerre. Nena News

* questo articolo e’ stato pubblicato il 17 giugno 2011 dal quotidiano Il Manifesto

Sporca guerra in Libia: Tanti rischi e pochi soldi per un intervento inutile.

Dice Roberto Maroni che possiamo ben risparmiarceli i soldi delle bombe sulla Libia e degli immigrati dalla Libia, visto che da quella missione pantano gli americani che ci avevano chiesto di partecipare si stanno già defilando ufficialmente, accusandoci anche di negligenza. Ha ragione, possiamo ben essere d’accordo con il ministro dell’Interno (e col governatore Formigoni) noi che sulle pagine di Libero l’abbiamo chiamata fin dal primo giorno una guerra da pazzi, noi che, per la verità in scarsa compagnia, cito giusto Souad Sbai, parlamentare che quel mondo lo conosce come pochi e che si è esposta subito, l’abbiamo scritto manco avessimo la sfera di cristallo, ma si chiama buon senso, che era una avventura stupida quanto avida, priva di tattica, strategia, progetto politico. Francia e Inghilterra a caccia di petrolio e di riscatto dalle figuracce in Tunisia e in Egitto si sono buttati, con l’appoggio della nuova politica internazionalista di Barack Obama in una guerra che non va da nessuna parte; la Germania saggiamente ha fiutato la trappola antieuropea partita da Washington e ha detto di no; l’Italia, che pure ben sapeva come le sedizoni di Bengasi non vadano scambiate con rivolte nazionali, l’Italia che con il dittatore aveva faticosamente e abilmente raggiunto un accordo di grande utilità sul contenimento degli sbarchi e ottimi affari in Libia, ha provato a resistere, poi ha ceduto alle pressioni. La collocazione geografica forse in parte obbligava, ma qualcuno prima o poi ci rivelerà il contenuto della famosa telefonata partita dalla casa Bianca verso Palazzo Chigi, qualcuno ci racconterà il ruolo del Quirinale, l’entusiasmo per le bombe “umanitarie”, e tanti altri dettagli inspiegabili. Se poi dovesse venir fuori che alla vigilia dell’attacco sferrato da Sarkozy senza preavviso né autorizzazione Nato, Gheddafi stava veramente trattando un passaggio di poteri che avrebbe potuto essere indolore, allora l’intrigo internazionale sarebbe veramente servito.

Il punto ora è se e come uscirne, possibilmente contenendo le perdite economiche e di sicureza nazionale. Il sottosegretario alla Difesa Usa, Robert Gates, uno che ha attraversato epoche e presidenti, dal Vietnam all’uccisione di Bin Laden, uno che ha dominato nei circoli realisti di Bush Padre, in quelli neoconservatori di Bush figlio, per approdare al pasticcio di Obama, nei giorni scorsi, parlando dell’intervento della Nato in Libia, ha spiegato che «è dolorosamente evidente che le lacune di investimenti e la mancanza di un largo consenso politico possono compromettere la possibilità di condurre una campagna militare integrata, efficace e duratura». Per lui l’Alleanza è a due velocità, visto che due terzi delle spese militari vengono pagate dai contribuenti americani i quali potrebbero «perdere la pazienza».

Certo è che In Libia, la missione "Comando Unificato" ha già superato i limiti prefissati e non ha prodotto il risultato di sconfiggere il Colonnello Gheddafi. L’esercito lealista resiste, gli insorti si sparano soprattutto sui piedi e in aria, coordinamento delle operazioni, fornitura di armi, addestramento, bombardamenti dall’aria non servono. Gheddafi si fa vedere e gioca a scacchi, come ha fatto giustamente notare Maroni, nel senso che ci prende in giro e ci manda anche a dire, a noi italiani, che con tutti è pronto a trattare tranne che con il traditore Berlusconi e il suo uomo Frattini.

Naturalmente qualche ragione a prendersela con l’Europa Gates ce l’ha. Gli europei hanno costruito i loro costosi sistemi di welfare inghiottendo i fondi destinati alla Difesa. Insieme, gli eserciti di Londra e Parigi non fanno quello israeliano, Sarkozy gioca alla grandeur indipendente, ma il budget dei francesi è appena il 6 per cento di quello americano, e il 7 quello degli inglesi. Anche  l’Italia per riuscire a far lavorare, il centro delle operazioni aeree richiede un aumento di specialisti provenienti in larga parte dagli Usa. Ma anche il Presidente Democratico sta seguendo una politica interna fatta di alta spesa pubblica e forti investimenti federali a svantaggio del budget militare, centinaia di miliardi di dollari in tagli al Pentagono nei prossimi 12 anni. Gates non è d’accordo, teme il rischio degli anni settanta e degli anni novanta, sempre presidenti democratici erano, e contesta i tagli lineari di Obama. Molti rischi, pochi soldi, grande confusione politica, tra l’Europa divisa e debole e un America in campagna elettorale. Perché allora cascare nella trappola di una guerra inutile a Gheddafi? Già, perché?

di Maria Giovanna Maglie | Libero

mercoledì, giugno 15, 2011

Zouk in Roma vs Kizomba in Roma = Kizomba Romana Eventi

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Zouk in Italia vs Kizomba in Italia = Kizomba Romana Eventi

martedì, giugno 14, 2011

SABATO 17 GIUGNO ✮ KIZOMBA ROMANA - WHITE NIGHT ✮ | CAFE CRETCHEU |

Quando: Venerdì 17 giugno 2011 | dalle 22:3 alle 4:00 |
Dove: Cafè Cretcheu | Via Ancona 13, 00198 Rome, Italia |

MOMENTI DI KIZOMBA ROMANA

- ✮✮WHITE NIGHT✮✮ -

 Kizomba Romana - white party-in-roma3 
✮✮TUTTI VESTITI DI BIANCO PER NOTARSI NELLA NOTTE✮✮
- Evento su Facebook -

SPECIALE EVENTO dalle 22:00 till late!
al Cafè Cretcheu, in via Ancona 13, 00198 Rome - Piazza Fiume/Porta Pia

Insieme per:
* Kizomba vs Zouklove
* Reggaeton vs Hip Hop
* Salsa vs * R&B
* Kuduro
* Soukuss
* Dance vs 80\90 style
* Reggae
*Coupe Dekale & much more.

WORLD MUSIC ON YOUR HEART!

Entrata è gratis con obbligo di consumo, E D'ALMENO UN CAPO DI ABBIGLIAMENTO BIANCO.
- Si mangiano degli stuzzichini ed altri cibi tipici.

LA NOSTRA FORMULA:
Ricominciamo dal Cafè Cretcheu. Questa è la nostra via. Puntiamo a creare momenti di amichevoli incontro dove vivere intensamente il ritmo della Kizomba e degli stili targati (Afrolatin sound ).

=> Tutti i venerdì ci troveremo al Cafè Cretcheu, come amici e come amanti del divertimento. L'ambiente lo costruisci tu, porta con sè i tuoi amici e amiche.
Vieni a vedere !

ATTENZIONE
[ I nostri amici sono sempre educati e cortesi sia fuori che dentro al locale! ]
[ Si consiglia di arrivare presto altrimenti che senso c'è arrivare alla fine della serata.]
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a) Cliccare su “Invita persone a partecipare” dal menu a destra.
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Kizomba Romana - white party-in-roma-
Kizomba Romana - white party-in-roma0000000000  Kizomba Romana - white party-in-roma2 
Per info: 320.5320188 | 338.4994766 | 3490841557
Non mancare, perderesti davvero una bella serata!

Kizomba Romana Eventi & Cafè Cretcheu
FACEBOOK: http://www.facebook.com/event.php?eid=136082836413742
KIZOMBA & ZOUK IN ROMA: http://www.facebook.com/kizomba.romana

L’ipocrisia della guerra libica, dimenticata da cittadini e pacifisti (Rassegna)

E sul sito dell'Aeronautica Militare Italiana, la missione non compare tra le ''Operazioni internazionali''

In Libia continuano i raid - anche italiani - ma nessuno ne parla. Né si trova più mezzo pacifista disposto a manifestare contro la guerra portata nel Paese di Gheddafi. Improvvisamente sono sparite le bandiere arcobaleno, i vari Alex Zanotelli, i cori, le fotine con la bandiera "dei ribelli" dalle iconcine di Facebook. Tutti si sono girati dall'altra parte.

Il mandato dell'Onu, l'ombrello della Nato e un misto di ipocrisia e buonismo deve aver convinto media e cittadini che in fondo qualche bomba possiamo pure sganciarla anche noi. Gli unici a fare ancora un po' di cagnara sono quelli della Lega. Ma non per amore del popolo di Gheddafi - no - quanto per le conseguenze sull'immigrazione clandestina.

Le bombe della "coalizione", intanto, proseguono a tartassare Tripoli e le forze lealiste. Qualche volta hanno sbagliato e la segnalazione di civili massacrati dal "fuoco amico" - quello giustificato dalla risoluzione 1973 votata dalle Nazioni Unite - è giunta fino in Europa e verrà esaminata. Anche qui, non c'è stato mezzo pacifista disposto a scendere in strada nel nome della pace. La Libia pare ormai sia stata abbandonata dai più al proprio destino. Al pari della Siria, dove ogni giorno si registrano stragi, i profughi scappano ma nessun pacifista muove un dito davanti ad alcuna ambasciata o consolato siriano. Quello che c'è stato - sporadicissimo rispetto alle manifestazioni cui siamo stati abituati - è stato ben poca cosa. Briciole.

D'accordo - mi si ribatterà - c'erano i referendum. Il nucleare, l'acqua pubblica, il legittimo impedimento. Giusto. Ma di fatto la Libia ormai se la sono dimenticata tutti. A tal punto che non ci si accorge nemmeno che sul sito dell'Aeronautica Militare Italiana non compare da tempo nemmeno una notizia sulle attività dei nostri piloti nei cieli di Tripoli. C'è solo un comunicato che racconta il tipo di armamento usato e sottotitolato "Il potere aerospaziale", quasi si trattasse di un videogioco. La guerra in Libia non compare nemmeno sotto l'elenco delle "Operazioni Internazionali" (ci sono invece Iraq e Afghanistan), come se non si stesse svolgendo. Che fanno i nostri piloti? Bombardano? Come? Dove? Quando? E soprattutto: chi? Tutte domande dimenticate da cittadini e popolo arcobaleno che non pretendono più risposte dalle istituzioni: in Libia stiamo combattendo una guerra ma non ci pensiamo più.

E per elencare altre ipocrisie - internazionali questa volta - l'Occidente dovrebbe intervenire inSiria, in Iran, in Darfur, in Yemen, in Somalia...giusto per citarne alcune. Sarebbero anche queste guerre giuste. L'impressione, invece, è che si sia scelto il più "debole", capace di mettere tutti d'accordo in breve tempo e senza troppe difficoltà.

Per non parlare dei tradimenti: Berlusconi era amico di Gheddafi mentre la campagna elettorale di Sarkozy - il primo a far sganciare le bombe sulla Libia - era stata sovvenzionata proprio dal rais.

Il tutto per tacer dei nostri interessi economici: le solerti bombe francesi hanno di fatto interrotto - o fortemente limitato - le attività petrolifere nostrane nella zona. Non una parola da Berlusconi, non una protesta da Frattini che pure è il Ministro degli Esteri. E gli italiani? Per sollievo del Governo, pare adesso pensino ad altro.

Di Emilio Fabio Torsello – Diritto di critica

Primavera Araba: La scommessa democratica “Voglio essere ottimista”

Sappiamo di essere testimoni della Storia, ma di una storia scritta in avanti, non all’indietro. Cerchiamo disperatamente un esito felice, ma non siamo pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Voglio essere ottimista circa lo sconvolgimento del mondo arabo e sui suoi esiti.
In effetti, voglio essere disperatamente fiducioso. Dopo tutto, se le cose dovessero davvero andare nella direzione giusta, un’intera regione potrebbe finalmente iniziare a godere delle benedizioni delle democrazie fiorenti e della tutela dei diritti umani. Come Immanuel Kant affermava nella sua opera “La pace perpetua”, le società “rappresentative” o “repubblicane” tendono a non muoversi guerra a vicenda.
Il migliore esempio moderno di questo fenomeno è l’Europa del dopoguerra. L’Unione Europea, nonostante tutti i suoi problemi ha dimostrato di essere il progetto di pace più ambizioso e di successo della storia contemporanea.
Guardando al mondo arabo negli ultimi sei mesi, stiamo assistendo all’inizio di un processo che potrebbe portare nella stessa direzione generale, o a qualcos’altro?
Francamente, nessuno può ancora dirlo.
Ricordiamo, per cominciare, che nessuno prevedeva la rivolta, iniziata in Tunisia. E anche quando gli eventi hanno cominciato a svolgersi, sono stati fatti molti passi falsi. Nel frattempo, i media cercavano di dare un senso a eventi che non avevano in alcun modo previsto, e avevano bisogno di sfornare analisi e spiegazioni agli utenti affamati di notizie a ciclo continuo.
Troppo spesso, i media hanno ceduto alla tentazione, incredibilmente semplicistica, di quella che io chiamerei “informazione binaria”. Quando il presidente egiziano Mubarak è stato infine ritenuto “cattivo”, per definizione, coloro che si opponevano a lui erano presunti “buoni”.
Stessa storia in Libia: se il colonnello Gheddafi era “un peccatore”, poi ovviamente chi cerca di scacciarlo, chiunque essi siano, devono essere per forza dei “santi”.
Ma col tempo si scopre che non è poi così semplice. Il contrario di “despota”, in situazioni del genere, potrebbe essere “democratico”, ma non necessariamente.
L’esempio più eloquente è l’Iran. Agli inizi del 1979, gli Stati Uniti e altri avevano concluso che lo scià, che il presidente Carter aveva in precedenza lodato come “un’isola di stabilità”, doveva andarsene. L’ipotesi era che chiunque l’avesse sostituito, sarebbe stato sicuramente migliore.
Salvo poi scoprire che non era così, ma il costo del giudizio sbagliato, per sottolineare ciò che è dolorosamente ovvio, si è rivelato molto alto.
Questo aiuta a spiegare perché Israele ha assunto un profilo insolitamente basso, adottando un atteggiamento attendista.
L’Egitto è lo scenario più grande. C’è molto in bilico: un accordo di pace in vigore dal 1979; le importazioni di gas egiziano; la politica nei confronti dei vicini di Gaza governata da Hamas; il ruolo dei Fratelli Musulmani nella politica egiziana, e più ampie considerazioni strategiche.
La Siria è un altro scenario di primario interesse strategico, naturalmente.
Se il presidente Assad riuscirà a mantenere il potere con la sua forza micidiale, che cosa desumerà dagli ultimi mesi? Accoglierà la necessità di una riforma, come qualcuno potrebbe ancora sperare vanamente, o forse tenterà di creare dei diversivi, come abbiamo visto il 15 maggio scorso e ancora pochi giorni fa, coinvolgendo, per esempio, Israele, nel tentativo di reindirizzare la rabbia nazionale? E se perderà il potere, chi lo sostituirà? Ci sono dei democratici jeffersoniani in attesa dietro le quinte tra la maggioranza sunnita? Ne dubito.
E l’elenco potrebbe continuare. Soprattutto, la Giordania, con cui Israele condivide la sua frontiera più lunga, la cooperazione per la sicurezza e un patto di pace, sarà capace di restare stabile, o affronterà anch’essa diffuse proteste destabilizzanti? La democrazia non è un processo che si esaurisce in una notte.
Richiede anni, in realtà decenni, di paziente e tenace coltivazione. Ha bisogno di penetrare ogni aspetto di una società - dalle scuole alla magistratura, dai media alla società civile, dalle urne ai militari. Sì, deve pur cominciare da qualche parte, ma pensare che possa essere trapiantata immediatamente in società che non hanno familiarità con i suoi principi fondamentali, o che possa realizzarsi mediante un processo lineare che salti allegramente di pietra miliare in pietra miliare, significa sottovalutare il percorso o il suo attuale punto di partenza.
I gruppi ebraici americani possono contribuire a nutrire questo processo, soprattutto, sollecitando un impegno americano continuo, non episodico, e l’analisi realistica dei comportamenti.
Ma, per quanto strano possa sembrare, l’unico paese nella regione più pronto a fare il salto potrebbe essere l’Iran.
Oggi suona inverosimile, ma forse non è proprio così. L’Iran ha una forte comunità di uomini d’affari, una classe media vibrante, un’esplosione demografica di giovani irrequieti, un forte movimento femminista e una diaspora attiva. Quanto potrà ancora andare avanti il regime teocratico corrotto, venale e repressivo prima che cada? Prima o poi cadrà, così come cadde l’Unione Sovietica.
E questo potrebbe davvero cambiare i giochi.
E allora guardiamo, aspettiamo e ci interroghiamo.
Sappiamo di essere testimoni della storia, ma di una storia che viene scritta in avanti, non all’indietro.
Stiamo disperatamente cercando un esito felice, ma non siamo ancora pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Vogliamo essere coerenti nel nostro approccio, ma ci rendiamo conto che la coerenza potrebbe farci finire nei guai. Vogliamo, per esempio, difendere le vittime della repressione di stato, ma temiamo un maggiore coinvolgimento in Libia o, similmente, qualsiasi coinvolgimento diretto in Siria. Vogliamo essere dalla parte della democrazia, ma sappiamo che se, per esempio, oggi il Bahrain cedesse alla sua maggioranza sciita, l’Iran potrebbe uscirne vincitore.
Così come auspichiamo una nuova era in Egitto, ma temiamo che ciò stravolga le politiche fondamentali di Mubarak su Israele e sugli Stati Uniti, e che l’islamismo prevalga.
Tutto questo ha bisogno di una diplomazia agile da parte degli Stati Uniti, dell’eterna vigilanza da parte di Israele e di una riflessione approfondita da parte degli ebrei americani.
E anche se non è una strategia, se qualcuno volesse metterci un extra di speranza per buona misura, io, per esempio, non mi opporrei.

di David Harris
Direttore esecutivo American Jewish Committee
www.ajc.org

(traduzione di Carmine Monaco)

Fermare l’aggressione contro la Libia! (Subito)

La nostra guerra di Libia continua, nella piena illegalità con cui è cominciata.

L’abbiamo fatta sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che viola la Carta delle Nazioni Unite, perché la Libia non stava affatto minacciando la pace e la sicurezza internazionale.

L’abbiamo fatta sulla base di un’ondata di informazioni false che non sono state mai verificate: non c’erano i 10 mila morti, non c’erano le fosse comuni; non ci sono mai stati bombardamenti su manifestazioni civili.

Migliaia di missioni di bombardamento della Nato, cui noi partecipiamo, hanno già prodotto centinaia di morti di civili. Noi uccidiamo e non proteggiamo.

Siamo intervenuti in una guerra civile sostenendo una parte contro l’altra senza nemmeno sapere chi sono quelli che diciamo di sostenere.

E finanziamo la rivolta con decine di milioni di euro. Tutto questo non è nemmeno scritto nella risoluzione dell’Onu.

Senza nessuna legittimità noi puntiamo all’uccisione del capo di uno Stato sovrano. E questo assassinio, già eseguito contro uno dei suoi figli, viene pubblicamente auspicato e conclamato dai capi delle potenze occidentali di cui siamo alleati. Stiamo assistendo inerti a un ritorno alla barbarie.

La vergogna di questo atteggiamento infame deve essere distribuita equamente tra tutte le forze politiche italiane. Solo rare voci si levano a protestare. Il pacifismo è inerte e tace anch’esso.

Ma noi non possiamo accettare in silenzio tutto ciò. Non è in nostro nome che si uccide, violando ancora una volta la nostra Costituzione.

Noi non abbiamo voce, ma vogliamo parlare a chi è ancora in grado di ascoltare. Questa aggressione deve finire.

Primi firmatari:

Angelo Del Boca

Giulietto Chiesa

Massimo Fini

Maurizio Pallante

Fernando Rossi

Roberto Savio

Luigi Sertorio

Nicola Tranfaglia

Francesco Badalini

Marino Badiale

Monia Benini

Pier Paolo Dal Monte

Ermes Drigo

FERMARE L’AGGRESSIONE!

firma petizione:

http://www.petizioni24.com/fermare_laggressione_contro_la_libia

Di : Fermare l'aggressione!
martedì 14 Giugno 2011

sabato, giugno 11, 2011

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sabato, giugno 04, 2011

Movimentação de embaixadores constitui destaque da semana–ParaRoma o Sr. Florêncio Mariano da Conceição de Almeida

Luanda - A exoneração de 26 embaixadores e a nomeação de 32 pelo Chefe de Estado, José Eduardo dos Santos, constituiu destaque no noticiário político na semana que hoje finda.

Dessas nomeações se destaca a presença de sete mulheres, tratando-se de Isabel Mercedes da Silva Feijó, nomeada para embaixadora na República Helénica da Grécia; Josefina Perpétua Pitra Diakité, República da África do Sul; Maria de Jesus dos Reis Ferreira, República da Áustria; e Lizeth Nawanga Satumbo Pena, República da Hungria.

Josefina Guilhermina Coelho da Cruz, República de Cabo Verde; Balbina Malheiros Dias da Silva, República da Zâmbia; e Ana Maria Teles Carreira, República do Ghana, constam igualmente do leque de mulheres nomeadas para chefiarem missões diplomáticas angolanas no exterior do país.

Dos embaixadores nomeados vão desempenhar pela primeira vez este cargo Nelson Manuel Cosme, que antes era o director para a direcção África e Meio de Oriente - DAMO, ora nomeado para a República Federativa do Brasil, Balbina Malheiros Dias da Silva, directora da direcção América do Mirex foi nomeada embaixadora na Zâmbia e Maria de Jesus dos Reis Ferreira era cônsul geral de Angola na cidade do Porto, Portugal foi designada para embaixadora na República da Áustria.

Ainda dos novos embaixadores destaque para Florêncio Mariano da Conceição de Almeida “Mário Cabral”, que desempenhava as funções de director para a cooperação bilateral do Mirex e que agora será o chefe da missão diplomática na Itália, e Isabel Mercedes da Silva Feijó, ministra conselheira do Mirex e agora vai chefiar a missão na República Helénica da Grécia.

Josefina Guilherme Coelho da Cruz antiga ministra conselheira do Mirex agora chefe da representação em Cabo Verde, Osvaldo dos Santos Varela foi director para Europa, agora nomeado para embaixador na Confederação Helvética da Suiça e Agostinho Tavares da Silva Neto (ministro conselheiro) que será embaixador no Canadá, também vão desempenhar o novo cargo pela primeira vez.

Outro assunto de destaque foi a presença de uma delegação angolana chefiada pelo vice-presidente, Fernando da Piedade Dias dos Santos, na Cimeira de Chefes de Estado e de Governo dos países membros das bacias florestais tropicais do Congo (África), da Amazónia (América Central) e de Borneo-MeKong (sudoeste asiático) que decorreu em Brazzaville, República do Congo.

Nesse evento, Angola reafirmou que prioriza a protecção e gestão sustentável da floresta de Maiombe (Cabinda), visando reduzir o impacto negativo da sua utilização, associadas às preocupações com as alterações climáticas e os seus reflexos no desenvolvimento.

Ao intervir na cimeira o vice – presidente sublinhou que "a preservação da floresta de Maiombe é tida como uma das prioridades, tendo o Executivo aprovado recentemente a criação de um parque nacional com vista a reforçar os objectivos da sua preservação, assumidos em 2009, para a criação de uma zona transfronteiriça entre os países da bacia do Congo e de reserva da biosfera".

Por outro lado, defendeu a cooperação estreita ente os países membros das três bacias florestais tropicais para garantir a sua preservação, advogando a necessidade de se promover um diálogo multissectorial para que se possa assegurar a nível nacional, regional e internacional a preservação dos recursos florestais.

Na mesma semana, a ministra da Justiça, Guilhermina Prata afirmou que, a abertura do Tribunal Académico vai contribuir sobremaneira no complemento da formação dos estudantes do curso de direito da Universidade Independente de Angola (UnIA).

A apreciação foi proferida depois de ter inaugurado o Tribunal Académico da Faculdade de Direito, denominado “Cardeal DR. D. Alexandre do Nascimento”.

Entretanto o juiz – conselheiro do Tribunal Supremo (TS), Cristiano André, considerou que o sector da Justiça, no país, está a viver uma fase “difícil” devido ao défice de magistrados, não se verificando apenas a nível Superior ou do Recurso, assim como em outras áreas, mesmo no Provincial e Municipal, referindo que o mais preocupante é o Provincial, pois com questões específicas por tratar tem absorvido também as de âmbito Municipal.

Outra questão que mereceu destaque ao longo da semana foi a ordem de prisão do comissário Joaquim Vieira Ribeiro ( Quim Ribeiro), ex-comandante provincial da Polícia Nacional de Luanda dada pelo Supremo Tribunal Militar, segundo um comunicado desse órgão a detenção foi baseada no acórdão de 1 de Junho deste Tribunal que o acusa como autor moral de dois crimes de violência contra inferior hierárquico de que resultaram mortes.

Por outro lado o enviado especial da primeira-ministra da Austrália, Neil Mules, defendeu que a troca com uma maior frequência de delegações ministeriais angolanas e australianas poderá ser o caminho para uma parceria mais efectiva e dinâmica.

Realçou que com este objectivo foi reforçado um convite ao ministro angolano das Relações Exteriores, Georges Chikoti e um outro ao ministro da Geologia e Minas e da Indústria, Joaquim David, para participar de um importante evento do sector das minas, a ter lugar no mês de Setembro do corrente ano.

Entretanto o ministro do Interior, Sebastião Martins, exortou os efectivos da Polícia de Intervenção Rápida (PIR), a adoptarem estratégias que se coadunem com os pressupostos que convergem para diminuição da delinquência e outras práticas que visem subverter a ordem instituída.

Numa mensagem de felicitações, por ocasião do 19 aniversário deste órgão operativo especial da Polícia Nacional, assinalado a 4 de Junho, Sebastião Martins, sublinhou que a nobre missão da PIR passa pelo respeito da pluralidade de ideias e paz social, sempre que esta for perturbada ou posta em causa.