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venerdì, giugno 17, 2011

La base segreta degli Stati Uniti per le guerre in Africa e Medio oriente

Piano della Cia. Secondo le rivelazioni di un funzionario dell’agenzia di spionaggio statunitense citato dal New York Times, gli Usa stanno costruendo una base aerea per lanciare attacchi nello Yemen con droni armati.

MANLIO DINUCCI*

Roma, 17 giugno 2011, Nena News Mentre i raid aerei sulla Libia sono saliti a 11.500 e il segretario generale della Nato Rasmussen chiede agli alleati più spese militari e maggiore impegno nella guerra, il conflitto si propaga nella regione mediorientale e nordafricana in forme meno visibili ma non per questo meno pericolose, aprendo in continuazione nuovi fronti. La Cia – informa un funzionario dell’agenzia di spionaggio statunitense citato dal New York Times – sta costruendo una base aerea segreta in Medio Oriente per lanciare attacchi nello Yemen con droni armati. Sono i Predator/Reaper (già in azione in Afghanistan, Pakistan e Libia), armati di 14 missili Hellfire e telecomandati da una base in Nevada a oltre 10mila chilometri di distanza.

Da quando è entrato in carica, «il presidente Obama ha drasticamente aumentato la campagna di bombardamento della Cia in Pakistan, impiegando droni armati», gli stessi che verranno usati per «espandere la guerra nello Yemen». L’amministrazione democratica li considera «l’arma preferita per cacciare e uccidere militanti in paesi dove non è praticabileuna grossa presenza militare americana». Nello Yemen, è attualmente in azione il Comando congiunto per le operazioni speciali (Ussocom), assistito dalla Cia e autorizzato dall’esecutivo di Sanaa. Ma, data la «fragilità di questo governo autoritario », l’amministrazione Obama è preoccupata che un futuro governo non sia in grado, o disposto, a sostenere le operazioni statunitensi. Per questo ha incaricato la Cia di costruire la base segreta in una non-identificata località mediorientale, così da intraprendere «azioni coperte senza l’appoggio del governo ospite». Ciò conferma che l’amministrazione Obama sta intensificando la guerra segreta in tutte le sue varianti. Come dichiara ufficialmente lo Ussocom, essa comprende: azione diretta per distruggere obiettivi, eliminare o catturare nemici; guerra non-convenzionale condotta da forze esterne, addestrate e organizzate dallo Ussocom; controinsurrezione per aiutare governi alleati a reprimere

una ribellione; operazione psicologica per influenzare l’opinione pubblica straniera così che appoggi le azioni militari Usa. Queste operazioni vengono condotte basandosi su tecnologie sempre più avanzate. Rientra in tale quadro la decisione dell’amministrazione Obama, resa nota dal New York Times, di creare su scala globale «reti ombra di Internet e telefonia mobile che possano essere usate dai dissidenti per aggirare la censura governativa». Il Pentagono e il Dipartimento di stato vi hanno investito finora almeno 50 milioni di dollari. Esse vengono realizzate per mezzo di speciali valigette che, introdotte in un determinato paese, permettono di comunicare con l’estero attraverso computer e telefoni cellulari, in modalità wireless e in codice, evitando controlli e divieti governativi.

La motivazione ufficiale di Washington è «difendere la libertà di parola e allevare la democrazia». Ben altri gli scopi. Le reti ombra, fornite solo ai gruppi dissidenti utili alla strategia statunitense (in Siria, Iran e altri paesi) e controllate da Washington, sono le più adatte a diffondere sui media notizie fabbricate, per operazioni psicologiche che preparano l’opinione pubblica a nuove guerre. Nena News

* questo articolo e’ stato pubblicato il 17 giugno 2011 dal quotidiano Il Manifesto

Sporca guerra in Libia: Tanti rischi e pochi soldi per un intervento inutile.

Dice Roberto Maroni che possiamo ben risparmiarceli i soldi delle bombe sulla Libia e degli immigrati dalla Libia, visto che da quella missione pantano gli americani che ci avevano chiesto di partecipare si stanno già defilando ufficialmente, accusandoci anche di negligenza. Ha ragione, possiamo ben essere d’accordo con il ministro dell’Interno (e col governatore Formigoni) noi che sulle pagine di Libero l’abbiamo chiamata fin dal primo giorno una guerra da pazzi, noi che, per la verità in scarsa compagnia, cito giusto Souad Sbai, parlamentare che quel mondo lo conosce come pochi e che si è esposta subito, l’abbiamo scritto manco avessimo la sfera di cristallo, ma si chiama buon senso, che era una avventura stupida quanto avida, priva di tattica, strategia, progetto politico. Francia e Inghilterra a caccia di petrolio e di riscatto dalle figuracce in Tunisia e in Egitto si sono buttati, con l’appoggio della nuova politica internazionalista di Barack Obama in una guerra che non va da nessuna parte; la Germania saggiamente ha fiutato la trappola antieuropea partita da Washington e ha detto di no; l’Italia, che pure ben sapeva come le sedizoni di Bengasi non vadano scambiate con rivolte nazionali, l’Italia che con il dittatore aveva faticosamente e abilmente raggiunto un accordo di grande utilità sul contenimento degli sbarchi e ottimi affari in Libia, ha provato a resistere, poi ha ceduto alle pressioni. La collocazione geografica forse in parte obbligava, ma qualcuno prima o poi ci rivelerà il contenuto della famosa telefonata partita dalla casa Bianca verso Palazzo Chigi, qualcuno ci racconterà il ruolo del Quirinale, l’entusiasmo per le bombe “umanitarie”, e tanti altri dettagli inspiegabili. Se poi dovesse venir fuori che alla vigilia dell’attacco sferrato da Sarkozy senza preavviso né autorizzazione Nato, Gheddafi stava veramente trattando un passaggio di poteri che avrebbe potuto essere indolore, allora l’intrigo internazionale sarebbe veramente servito.

Il punto ora è se e come uscirne, possibilmente contenendo le perdite economiche e di sicureza nazionale. Il sottosegretario alla Difesa Usa, Robert Gates, uno che ha attraversato epoche e presidenti, dal Vietnam all’uccisione di Bin Laden, uno che ha dominato nei circoli realisti di Bush Padre, in quelli neoconservatori di Bush figlio, per approdare al pasticcio di Obama, nei giorni scorsi, parlando dell’intervento della Nato in Libia, ha spiegato che «è dolorosamente evidente che le lacune di investimenti e la mancanza di un largo consenso politico possono compromettere la possibilità di condurre una campagna militare integrata, efficace e duratura». Per lui l’Alleanza è a due velocità, visto che due terzi delle spese militari vengono pagate dai contribuenti americani i quali potrebbero «perdere la pazienza».

Certo è che In Libia, la missione "Comando Unificato" ha già superato i limiti prefissati e non ha prodotto il risultato di sconfiggere il Colonnello Gheddafi. L’esercito lealista resiste, gli insorti si sparano soprattutto sui piedi e in aria, coordinamento delle operazioni, fornitura di armi, addestramento, bombardamenti dall’aria non servono. Gheddafi si fa vedere e gioca a scacchi, come ha fatto giustamente notare Maroni, nel senso che ci prende in giro e ci manda anche a dire, a noi italiani, che con tutti è pronto a trattare tranne che con il traditore Berlusconi e il suo uomo Frattini.

Naturalmente qualche ragione a prendersela con l’Europa Gates ce l’ha. Gli europei hanno costruito i loro costosi sistemi di welfare inghiottendo i fondi destinati alla Difesa. Insieme, gli eserciti di Londra e Parigi non fanno quello israeliano, Sarkozy gioca alla grandeur indipendente, ma il budget dei francesi è appena il 6 per cento di quello americano, e il 7 quello degli inglesi. Anche  l’Italia per riuscire a far lavorare, il centro delle operazioni aeree richiede un aumento di specialisti provenienti in larga parte dagli Usa. Ma anche il Presidente Democratico sta seguendo una politica interna fatta di alta spesa pubblica e forti investimenti federali a svantaggio del budget militare, centinaia di miliardi di dollari in tagli al Pentagono nei prossimi 12 anni. Gates non è d’accordo, teme il rischio degli anni settanta e degli anni novanta, sempre presidenti democratici erano, e contesta i tagli lineari di Obama. Molti rischi, pochi soldi, grande confusione politica, tra l’Europa divisa e debole e un America in campagna elettorale. Perché allora cascare nella trappola di una guerra inutile a Gheddafi? Già, perché?

di Maria Giovanna Maglie | Libero

martedì, giugno 14, 2011

L’ipocrisia della guerra libica, dimenticata da cittadini e pacifisti (Rassegna)

E sul sito dell'Aeronautica Militare Italiana, la missione non compare tra le ''Operazioni internazionali''

In Libia continuano i raid - anche italiani - ma nessuno ne parla. Né si trova più mezzo pacifista disposto a manifestare contro la guerra portata nel Paese di Gheddafi. Improvvisamente sono sparite le bandiere arcobaleno, i vari Alex Zanotelli, i cori, le fotine con la bandiera "dei ribelli" dalle iconcine di Facebook. Tutti si sono girati dall'altra parte.

Il mandato dell'Onu, l'ombrello della Nato e un misto di ipocrisia e buonismo deve aver convinto media e cittadini che in fondo qualche bomba possiamo pure sganciarla anche noi. Gli unici a fare ancora un po' di cagnara sono quelli della Lega. Ma non per amore del popolo di Gheddafi - no - quanto per le conseguenze sull'immigrazione clandestina.

Le bombe della "coalizione", intanto, proseguono a tartassare Tripoli e le forze lealiste. Qualche volta hanno sbagliato e la segnalazione di civili massacrati dal "fuoco amico" - quello giustificato dalla risoluzione 1973 votata dalle Nazioni Unite - è giunta fino in Europa e verrà esaminata. Anche qui, non c'è stato mezzo pacifista disposto a scendere in strada nel nome della pace. La Libia pare ormai sia stata abbandonata dai più al proprio destino. Al pari della Siria, dove ogni giorno si registrano stragi, i profughi scappano ma nessun pacifista muove un dito davanti ad alcuna ambasciata o consolato siriano. Quello che c'è stato - sporadicissimo rispetto alle manifestazioni cui siamo stati abituati - è stato ben poca cosa. Briciole.

D'accordo - mi si ribatterà - c'erano i referendum. Il nucleare, l'acqua pubblica, il legittimo impedimento. Giusto. Ma di fatto la Libia ormai se la sono dimenticata tutti. A tal punto che non ci si accorge nemmeno che sul sito dell'Aeronautica Militare Italiana non compare da tempo nemmeno una notizia sulle attività dei nostri piloti nei cieli di Tripoli. C'è solo un comunicato che racconta il tipo di armamento usato e sottotitolato "Il potere aerospaziale", quasi si trattasse di un videogioco. La guerra in Libia non compare nemmeno sotto l'elenco delle "Operazioni Internazionali" (ci sono invece Iraq e Afghanistan), come se non si stesse svolgendo. Che fanno i nostri piloti? Bombardano? Come? Dove? Quando? E soprattutto: chi? Tutte domande dimenticate da cittadini e popolo arcobaleno che non pretendono più risposte dalle istituzioni: in Libia stiamo combattendo una guerra ma non ci pensiamo più.

E per elencare altre ipocrisie - internazionali questa volta - l'Occidente dovrebbe intervenire inSiria, in Iran, in Darfur, in Yemen, in Somalia...giusto per citarne alcune. Sarebbero anche queste guerre giuste. L'impressione, invece, è che si sia scelto il più "debole", capace di mettere tutti d'accordo in breve tempo e senza troppe difficoltà.

Per non parlare dei tradimenti: Berlusconi era amico di Gheddafi mentre la campagna elettorale di Sarkozy - il primo a far sganciare le bombe sulla Libia - era stata sovvenzionata proprio dal rais.

Il tutto per tacer dei nostri interessi economici: le solerti bombe francesi hanno di fatto interrotto - o fortemente limitato - le attività petrolifere nostrane nella zona. Non una parola da Berlusconi, non una protesta da Frattini che pure è il Ministro degli Esteri. E gli italiani? Per sollievo del Governo, pare adesso pensino ad altro.

Di Emilio Fabio Torsello – Diritto di critica

Primavera Araba: La scommessa democratica “Voglio essere ottimista”

Sappiamo di essere testimoni della Storia, ma di una storia scritta in avanti, non all’indietro. Cerchiamo disperatamente un esito felice, ma non siamo pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Voglio essere ottimista circa lo sconvolgimento del mondo arabo e sui suoi esiti.
In effetti, voglio essere disperatamente fiducioso. Dopo tutto, se le cose dovessero davvero andare nella direzione giusta, un’intera regione potrebbe finalmente iniziare a godere delle benedizioni delle democrazie fiorenti e della tutela dei diritti umani. Come Immanuel Kant affermava nella sua opera “La pace perpetua”, le società “rappresentative” o “repubblicane” tendono a non muoversi guerra a vicenda.
Il migliore esempio moderno di questo fenomeno è l’Europa del dopoguerra. L’Unione Europea, nonostante tutti i suoi problemi ha dimostrato di essere il progetto di pace più ambizioso e di successo della storia contemporanea.
Guardando al mondo arabo negli ultimi sei mesi, stiamo assistendo all’inizio di un processo che potrebbe portare nella stessa direzione generale, o a qualcos’altro?
Francamente, nessuno può ancora dirlo.
Ricordiamo, per cominciare, che nessuno prevedeva la rivolta, iniziata in Tunisia. E anche quando gli eventi hanno cominciato a svolgersi, sono stati fatti molti passi falsi. Nel frattempo, i media cercavano di dare un senso a eventi che non avevano in alcun modo previsto, e avevano bisogno di sfornare analisi e spiegazioni agli utenti affamati di notizie a ciclo continuo.
Troppo spesso, i media hanno ceduto alla tentazione, incredibilmente semplicistica, di quella che io chiamerei “informazione binaria”. Quando il presidente egiziano Mubarak è stato infine ritenuto “cattivo”, per definizione, coloro che si opponevano a lui erano presunti “buoni”.
Stessa storia in Libia: se il colonnello Gheddafi era “un peccatore”, poi ovviamente chi cerca di scacciarlo, chiunque essi siano, devono essere per forza dei “santi”.
Ma col tempo si scopre che non è poi così semplice. Il contrario di “despota”, in situazioni del genere, potrebbe essere “democratico”, ma non necessariamente.
L’esempio più eloquente è l’Iran. Agli inizi del 1979, gli Stati Uniti e altri avevano concluso che lo scià, che il presidente Carter aveva in precedenza lodato come “un’isola di stabilità”, doveva andarsene. L’ipotesi era che chiunque l’avesse sostituito, sarebbe stato sicuramente migliore.
Salvo poi scoprire che non era così, ma il costo del giudizio sbagliato, per sottolineare ciò che è dolorosamente ovvio, si è rivelato molto alto.
Questo aiuta a spiegare perché Israele ha assunto un profilo insolitamente basso, adottando un atteggiamento attendista.
L’Egitto è lo scenario più grande. C’è molto in bilico: un accordo di pace in vigore dal 1979; le importazioni di gas egiziano; la politica nei confronti dei vicini di Gaza governata da Hamas; il ruolo dei Fratelli Musulmani nella politica egiziana, e più ampie considerazioni strategiche.
La Siria è un altro scenario di primario interesse strategico, naturalmente.
Se il presidente Assad riuscirà a mantenere il potere con la sua forza micidiale, che cosa desumerà dagli ultimi mesi? Accoglierà la necessità di una riforma, come qualcuno potrebbe ancora sperare vanamente, o forse tenterà di creare dei diversivi, come abbiamo visto il 15 maggio scorso e ancora pochi giorni fa, coinvolgendo, per esempio, Israele, nel tentativo di reindirizzare la rabbia nazionale? E se perderà il potere, chi lo sostituirà? Ci sono dei democratici jeffersoniani in attesa dietro le quinte tra la maggioranza sunnita? Ne dubito.
E l’elenco potrebbe continuare. Soprattutto, la Giordania, con cui Israele condivide la sua frontiera più lunga, la cooperazione per la sicurezza e un patto di pace, sarà capace di restare stabile, o affronterà anch’essa diffuse proteste destabilizzanti? La democrazia non è un processo che si esaurisce in una notte.
Richiede anni, in realtà decenni, di paziente e tenace coltivazione. Ha bisogno di penetrare ogni aspetto di una società - dalle scuole alla magistratura, dai media alla società civile, dalle urne ai militari. Sì, deve pur cominciare da qualche parte, ma pensare che possa essere trapiantata immediatamente in società che non hanno familiarità con i suoi principi fondamentali, o che possa realizzarsi mediante un processo lineare che salti allegramente di pietra miliare in pietra miliare, significa sottovalutare il percorso o il suo attuale punto di partenza.
I gruppi ebraici americani possono contribuire a nutrire questo processo, soprattutto, sollecitando un impegno americano continuo, non episodico, e l’analisi realistica dei comportamenti.
Ma, per quanto strano possa sembrare, l’unico paese nella regione più pronto a fare il salto potrebbe essere l’Iran.
Oggi suona inverosimile, ma forse non è proprio così. L’Iran ha una forte comunità di uomini d’affari, una classe media vibrante, un’esplosione demografica di giovani irrequieti, un forte movimento femminista e una diaspora attiva. Quanto potrà ancora andare avanti il regime teocratico corrotto, venale e repressivo prima che cada? Prima o poi cadrà, così come cadde l’Unione Sovietica.
E questo potrebbe davvero cambiare i giochi.
E allora guardiamo, aspettiamo e ci interroghiamo.
Sappiamo di essere testimoni della storia, ma di una storia che viene scritta in avanti, non all’indietro.
Stiamo disperatamente cercando un esito felice, ma non siamo ancora pronti a scommettere la fattoria di famiglia sulla sua riuscita.
Vogliamo essere coerenti nel nostro approccio, ma ci rendiamo conto che la coerenza potrebbe farci finire nei guai. Vogliamo, per esempio, difendere le vittime della repressione di stato, ma temiamo un maggiore coinvolgimento in Libia o, similmente, qualsiasi coinvolgimento diretto in Siria. Vogliamo essere dalla parte della democrazia, ma sappiamo che se, per esempio, oggi il Bahrain cedesse alla sua maggioranza sciita, l’Iran potrebbe uscirne vincitore.
Così come auspichiamo una nuova era in Egitto, ma temiamo che ciò stravolga le politiche fondamentali di Mubarak su Israele e sugli Stati Uniti, e che l’islamismo prevalga.
Tutto questo ha bisogno di una diplomazia agile da parte degli Stati Uniti, dell’eterna vigilanza da parte di Israele e di una riflessione approfondita da parte degli ebrei americani.
E anche se non è una strategia, se qualcuno volesse metterci un extra di speranza per buona misura, io, per esempio, non mi opporrei.

di David Harris
Direttore esecutivo American Jewish Committee
www.ajc.org

(traduzione di Carmine Monaco)

Fermare l’aggressione contro la Libia! (Subito)

La nostra guerra di Libia continua, nella piena illegalità con cui è cominciata.

L’abbiamo fatta sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che viola la Carta delle Nazioni Unite, perché la Libia non stava affatto minacciando la pace e la sicurezza internazionale.

L’abbiamo fatta sulla base di un’ondata di informazioni false che non sono state mai verificate: non c’erano i 10 mila morti, non c’erano le fosse comuni; non ci sono mai stati bombardamenti su manifestazioni civili.

Migliaia di missioni di bombardamento della Nato, cui noi partecipiamo, hanno già prodotto centinaia di morti di civili. Noi uccidiamo e non proteggiamo.

Siamo intervenuti in una guerra civile sostenendo una parte contro l’altra senza nemmeno sapere chi sono quelli che diciamo di sostenere.

E finanziamo la rivolta con decine di milioni di euro. Tutto questo non è nemmeno scritto nella risoluzione dell’Onu.

Senza nessuna legittimità noi puntiamo all’uccisione del capo di uno Stato sovrano. E questo assassinio, già eseguito contro uno dei suoi figli, viene pubblicamente auspicato e conclamato dai capi delle potenze occidentali di cui siamo alleati. Stiamo assistendo inerti a un ritorno alla barbarie.

La vergogna di questo atteggiamento infame deve essere distribuita equamente tra tutte le forze politiche italiane. Solo rare voci si levano a protestare. Il pacifismo è inerte e tace anch’esso.

Ma noi non possiamo accettare in silenzio tutto ciò. Non è in nostro nome che si uccide, violando ancora una volta la nostra Costituzione.

Noi non abbiamo voce, ma vogliamo parlare a chi è ancora in grado di ascoltare. Questa aggressione deve finire.

Primi firmatari:

Angelo Del Boca

Giulietto Chiesa

Massimo Fini

Maurizio Pallante

Fernando Rossi

Roberto Savio

Luigi Sertorio

Nicola Tranfaglia

Francesco Badalini

Marino Badiale

Monia Benini

Pier Paolo Dal Monte

Ermes Drigo

FERMARE L’AGGRESSIONE!

firma petizione:

http://www.petizioni24.com/fermare_laggressione_contro_la_libia

Di : Fermare l'aggressione!
martedì 14 Giugno 2011

martedì, maggio 31, 2011

Illusioni pericolose: “Recedere dall’Unione Europea”, di Giuliano Amato

Il meglio del web – Vi porto ciò che trovo interessante in merito a questioni di politica nazionale ed internazionale. Sulla crisi greca c’è da dire che una delle migliori soluzioni è l’uscita della zona euro. Come andrà a finire nessuno lo può prevedere. Ecco questo bellissimo articolo di Giuliano Amato. Buona lettura!

Fui io a proporre quello che è oggi l'articolo 50 del Trattato dell'Unione Europea, l'articolo che consente agli Stati membri di recedere dalla stessa Unione. Ma quando lo pensai, e quando fu approvato, a nessuno venne in mente che potesse servire in occasione del fallimento finanziario di uno dei nostri Stati. Nessuno dice ora di volerlo.

Ma quando, tre giorni fa, la commissaria europea per la Pesca, la greca Maria Damanaki, ha detto che senza un accordo con i suoi creditori la presenza della Grecia nel mercato comune era in serio pericolo, abbiamo tutti capito che l'ipotesi del recesso è comunque entrata fra quelle a cui si pensa (tanto più che l'uscita dall'euro senza l'uscita dall'Unione non è legalmente possibile).
È un'ipotesi tutt'altro che facile da praticare, soprattutto non lo è con l'immediatezza che in genere caratterizza le risposte all'emergenza finanziaria. Basta leggere la procedura per rendersene conto. È una procedura di negoziato, intesa a sistemare le complesse partite di dare e di avere che si sono venute formando negli anni di comune permanenza nell'Unione, e per essa l'art.50 prevede un termine di ben due anni.

La realtà è che l'articolo fu scritto e voluto più come deterrente, che come norma destinata ad essere effettivamente applicata. Per anni la strategia ostruzionistica e di logoramento degli euroscettici di stampo britannico si era avvalsa dell'argomento «ci dite che l'appartenenza all'Unione è irreversibile, siamo dunque costretti a stare insieme e allora non potete imporci questo, non potete negarci quest'altro» e così via tirando permanentemente la corda. Bene, dice ora l'art.50, qui nessuno è tenuto a rimanere per forza e se ciò che per tutti gli altri va bene non va bene invece per qualcuno, la porta è lì e quel qualcuno può accomodarsi. Il vecchio ricatto, insomma, non è più possibile.

Eppure oggi di un recesso della Grecia si è cominciato a parlare, sia pure per escluderlo. E in un contesto spietato come quello dei mercati finanziari qualunque ipotesi venga messa sul tappeto diventa sempre uno scenario possibile, sul quale vengono misurate convenienze e del quale, se convenienze possono esserci, qualcuno cercherà di favorire l'avvento. Come siamo arrivati a questo punto nei confronti di un Paese che non è mai stato euroscettico e neppure "euro turbolento"?
Certo, si è scoperto due anni fa che i suoi conti erano truccati e che aveva abbondantemente violato il patto di stabilità, senza farlo trapelare. Ma da allora il Governo Papandreu si è impegnato in un robusto programma di restrizioni e di riforme per rimettere la Grecia in riga. Perché la Grecia è ora in ginocchio e sui mercati pochi credono che riesca a ripagare il suo debito e ci si aspetta invece il "default"? È l'asticella che le è stato chiesto di saltare che è troppo alta, oppure sono i greci che si rifiutano di saltarla e alimentano attorno a sé una crescente sfiducia? E a chi servirebbe l'eventuale e pur denegato recesso, agli stessi greci per sottrarsi a una condizione divenuta per loro insostenibile, o agli altri paesi dell'Eurozona, per amputare la parte infetta ed evitare il contagio?

Chi ha seguito l'evoluzione della vicenda greca sa perfettamente che le responsabilità del temuto disastro vanno ripartite equamente tra i soccorritori della Grecia e la Grecia stessa alle prese con le condizioni che essi le hanno imposto. Dei soccorritori in casi di emergenza si suole dire che "sono corsi" in aiuto di chi aveva bisogno di loro. Ecco, dei soccorritori della Grecia tutto si può dire tranne questo. E il tempo che l'Unione Europea ha fatto passare prima che soprattutto la Germania vincesse le sue interne ritrosie ha consentito ai tassi di interesse sul debito greco di raggiungere vette talmente elevate da rendere per ciò solo problematico un rientro inizialmente molto più praticabile.

Dall'altra parte gli impegni che George Papandreu ha dovuto prendere per il suo Paese erano essi stessi un'asticella troppo alta (in un solo anno avrebbe dovuto ridurre l'indebitamento di ben 7.5 punti) ed hanno per di più incontrato ogni sorta di ostacolo interno, dalla forte ostilità di diversi segmenti sociali, all'irresponsabilità dell'opposizione che l'ha alimentata, alla vera e propria renitenza di chi quegli impegni li doveva eseguire e in molti casi si è ben guardato dal farlo. La conclusione è che la Grecia ha oggi un debito troppo alto da pagare e una propensione troppo bassa a mettersi nella condizione di farlo.

I mercati sono ora in attesa e fanno capire non solo che il default della Grecia sarebbe destabilizzante per tutta l'Eurozona, ma anche che un eventuale allungamento delle scadenze per i titoli greci, specie per quelli in mani private, sarebbe ritenuto equivalente a un default. Ciò significa che a quel punto non sarebbe solo la Grecia a vedere precipitare il suo merito di credito.
In questo clima non è affatto impensabile che qualcuno si chieda: ma allora non sarebbe meno destabilizzante se la Grecia uscisse dall'Unione? Certo non finirebbe di soffrire, anzi con il ritorno alla dracma pagherebbe tutte le conseguenze di una prevedibile, forte inflazione. Ma almeno non sarebbe soggetta a condizioni tanto difficili da rispettare e i suoi creditori, volenti o nolenti, dovrebbero accontentarsi di pagamenti con una valuta sempre più debole, che proprio attraverso la svalutazione (come tante volte è accaduto nella storia) alleggerirebbe il peso del debito. Per parte sua l'Unione Europea eviterebbe di impelagarsi in ulteriori impieghi di risorse e in ulteriori condizioni che, in caso poi di fallimento, la renderebbero sempre più corresponsabile dello stesso fallimento, con effetti ancora più probabili di contagio e di destabilizzazione. Fermarsi ora e amputare la parte malata, e cioè la Grecia, potrebbe invece evitarlo.

Mi si dirà che è inutile anche parlarne perché nessuno ci pensa davvero. Ma non guasta notare che una cosa utile è far presente ai greci - come ha fatto la Damanaki- che il rischio c'è, una cosa ben diversa sarebbe adoprarsi davvero per il loro recesso. Prescindiamo dalla scarsa idoneità della procedura a risolvere un problema di emergenza (i giuristi a questi fini inventano sempre qualcosa). E prescindiamo anche dal guaio in cui si troverebbe la Grecia, condiviso pro quota dalle banche, non solo greche, che hanno in portafoglio i suoi titoli. Ma davvero si eviterebbe il contagio mettendola fuori dall'Unione, dimostrando con ciò che non è più la coesione il principio su cui questa si regge e che i mercati, prendendo di mira qualcuno, possono ottenere un risultato del genere? L'Europa - temo - diventerebbe un carciofo.

Ciò che meno destabilizza è allora continuare a sostenere la Grecia, imponendole condizioni che essa possa adempiere e costringendola davvero ad adempiere. E il recesso resti lì, allo scopo per cui lo si era pensato.

=> Rassegna: 29 maggio 2011 | di Giuliano Amato |