di Agnese Licata
"Qua se ti vedono di colore o sei puttana o fai le pulizie. Non puoi essere altro per loro". Parla a bassa voce, Margaret Edaqe. La forza di questa piccola donna keniana è tutta in due occhi neri che non hanno paura di guardare dritto in quelli di chi ha di fronte. Con questa voce flebile e con questi occhi decisi, Margaret racconta la quotidianità di una donna di colore in una città - Trieste - che fa della multietnicità la sua bandiera, il suo vanto più grande.
Racconta di un lavoro, quello di mediatrice culturale, che troppo spesso è confuso con la semplice traduzione. E si sporge in avanti, si avvicina, quasi per essere sicura che la sua voce e la sua rabbia arrivi dall'altra parte, quando parla del suo Paese, del suo continente, di quest'Africa che piano piano "sta morendo".Prima di trasferirsi in Italia, ormai quasi vent'anni fa, Margaret viveva a Malindi, sulla costa del Kenya. Una famiglia agiata, la sua. La madre insegnante, il padre addetto al parco marino. E sedici fratelli provenienti da matrimoni diversi. "Una volta sono entrata in una banca per prendere dei soldi e l'addetto allo sportello ridendo mi dice: che strano, questa volta i soldi arrivano da giù, in genere partono da qua per andare in Africa... Come se l'Africa fosse tutta povera. Ma non è così, quando io ho bisogno è la mia famiglia che mi aiuta". E sono proprio stereotipi come questo che fanno più male. Sempre lì a ricordare che si è diversi, stranieri, anche se si parla bene l'italiano, anche se si lavora come gli italiani. "Sono qua da anni, ma vado a comprare sempre nei soliti cinque negozi contati. Negli altri quando entro le commesse è come se non mi vedessero, continuano a chiacchierare o a fare altro. Mentre se entra una donna bianca subito a chiedere: ha bisogno?. Io questo lo chiamo razzismo".
Razzismo, discriminazione sulla base del colore della pelle e sul presunto volume del portafoglio: "Credono sempre che siccome siamo nere non abbiamo soldi da spendere". E non si può fare a meno di notare la sensibile differenza con i racconti della sua collega croata, anche lei da tantissimi anni in Italia e che invece dice: "Io non mi sento affatto straniera. Ormai mi sento più straniera a Pola, dove non conosco più nessuno". In una città come Trieste, dove tradizionalmente l'immigrazione è immigrazione dall'area balcanica e quindi "bianca", per chi viene dall'Africa è difficile "mimetizzarsi".E mentre il racconto continua, cresce un senso di disagio e di spiazzamento di fronte a espressioni del tipo "donna bianca", "donna nera". Forse solo l'illusione che dagli anni Ottanta si fosse andati avanti. E il fantasma troppo concreto che continua a camminare su questo "tapirulan", senza quasi accorgersene. "Durante una gita, un ragazzino albanese ha chiamato negretta mia figlia. E lei lo ha preso per i capelli e lo ha picchiato. Spesso sono proprio i figli degli altri immigrati a essere più cattivi". E mentre lei parla, l'amica a fianco - Nina - non può che confermare e raccontare anche lei il suo pezzo di vita. E quello dei suoi due figli. Vissuta a Nairobi, Nina ha conosciuto e sposato un italiano che aveva aperto una ditta in Kenya. Dopo undici anni di vita insieme, l'incerto clima politico del Paese li ha spinti a prendere la via per l'Italia. Ma soprattutto per i due figli non è stato facile. "Per il più piccolo, che ha sette anni, è stata dura. A scuola lo chiamavano nero o negretto e lui tornava a casa piangendo. Siamo arrivati al punto di essere contenti di una bocciatura per riuscire a cambiare classe. Poi per fortuna abbiamo incontrato una maestra bravissima". E c'è il ricordo di un festa con tutti i genitori e i bambini della scuola. "I bambini giocavano e scherzavano. Le mamme parlavano tra loro.
Io ero nuova e nessuno è venuto a presentarsi, a parlare con me. Mi sono sentita così isolata… Hanno alzato un muro. E da allora non sono più riuscita a instaurare un rapporto con loro", spiega Nina facendo un gesto con la mano sul petto.
Questa esperienza di isolamento, Margaret la incontra spesso anche nel suo lavoro. Margaret conosce quattro delle lingue che si parlano in Kenya e sei altre lingue africane. Questo le permette di lavorare con nove nazionalità. Il suo settore è soprattutto la sanità pubblica, ma anche la scuola. "E' un lavoro duro". E non solo perché con il dedalo di etnie, lingue, tribù (solo in Kenya sono 42) estranee ai confini postcoloniali, sapere che una persona proviene dalla Nigeria non basta e bisogna cercare informazioni più dettagliate dalle ambasciate.
Ma anche perché troppo spesso "medici e infermieri non capiscono che non è sufficiente parlare la loro lingua per poter curare una persona. Bisogna sapere il suo passato, la sua cultura. Una donna africana non confiderebbe mai la sua vita a un medico bianco", e si capisce che l'ostacolo non è solo il colore, ma anche il genere. "Ad esempio c'era una ragazza malata di Aids. Ai medici non aveva mai detto di essere malata.
A me sì. Perché io sono come loro e sono una donna. Le porto a bere un caffè, parliamo e mi dicono tutto. Sanno che di me si possono fidare". E poi il ricordo va al Kenya e a quel cordone che lega due amiche più che due sorelle. "Molti medici però questo non lo capiscono e non mi chiamano subito. Credono di potersela sbrigare da soli solo perché parlano l'inglese". Margaret ha viaggiato molto, da quando in Kenya ha iniziato a lavorare per un'agenzia di viaggi. E così spesso nelle sue parole torna l'esempio dell'Inghilterra, "dove non c'è questo rapporto gerarchico: ci sono persone di tutte le nazionalità che lavorano nei servizi sociali, nei consultori. Perché una persona della stessa nazione dell'utente può capire sempre meglio la situazione. Qua invece sei un consulente esterno e ti fanno sempre sentire che non fai parte del loro gruppo di lavoro".
Poi, tra un racconto e un altro, si torna all'Africa e soprattutto a un rapporto con l'Occidente che porta a tutto tranne che allo sviluppo. L'indignazione nelle parole di Margaret aumenta. "L'Africa è sommersa dagli abiti usati. Gli africani li comprano perché sono europei e loro hanno il mito dell'Europa. Comprano anche le mutande. E non si chiedono chi ha messo quelle mutande. E poi ci si sorprende che si diffondano le malattie veneree". Ma non è solo questo. È anche il fatto che così "non potrà mai nascere un'industria tessile". Un assistenzialismo che è tutto fuorché utile, che fa morire questi paesi. Spesso un assistenzialismo cattolico. "Le zone dell'Africa dove c'è più povertà sono quelle in cui il cristianesimo è più forte": rifiuto di una politica del contenimento familiare, metodi anticoncezionali considerati "diabolici" e peggiori del rischio di contrarre l'Aids. Inutili e dannosi anche molti dei progetti di cooperazione internazionale: "Si dice che molti soldi vanno all'Africa. Sì, ma come? Gli italiani e non solo fanno loro progetti, portano il loro personale formato in Italia, il loro materiale prodotto in Italia e vanno in Africa a costruire cosa? Perché non usi il personale in loco? Che senso ha far arrivare una pompa dell'acqua dall'Occidente quando in Africa la compreresti a un terzo se non meno? Allora non è vero che si lavora per l'Africa, tutto è solo per le industrie europee", s'indigna questa piccola donna keniana, Margaret Edaqe.
Fonte: altrenotizie.it
Nessun commento:
Posta un commento